domenica 17 novembre 2013

[(s)Concerto poetico n. 107]

C’è una parola che, a sentirla, non mi va giù;
eppure ogni giorno viene usata sempre di più.
È quando si dice, per fare un esempio
(quando la odo, di sconforto mi riempio):
“Non chiamo quel/la ragazzo/a, perché *tanto*…”
“Non provo a fare quel concorso perché *tanto*…”
E altre affermazioni sullo stesso stile,
in cui si rinuncia a tentare quel che si crede impossibile.
Ci accontentiamo di quello che ci viene propinato,
senza quindi aver neppure, a guadagnarle da soli, provato.
Perché, vi chiedo allora, si è persa la speranza,
a questo mondo di aver non solo “abbastanza”?
Ma di poter affermare con orgoglio:
“sono arrivato a quel risultato, perché io lo voglio”.
Niente, se vogliamo, ci è precluso;
solo chi non ci prova, rimane di sicuro deluso.
“Panem et circenses” sembra sia l’unica vita che dobbiamo accettare,
ma di vivere più pienamente non dobbiamo aspirare.
E anche se, coi nostri tempi attuali,
di spendere un po’ non siam più abituali,
comprare una partita allo stadio,
o il telefono con foto, video e radio,
sembra più importante di affrontare le sfide vere,
quelle in cui dobbiamo, di esser uomini, far vedere.
Con “uomini”, intendiamoci, non faccio distinzione di sessi,
ma includo tutti quelli/e che non scendono a compromessi,
vivendo la propria vita liberamente;
che stiano da soli, o in mezzo alla gente.
E un giorno, guardando ai risultati ottenuti, potranno dire:
“ho fatto anche degli errori, ma di aver sempre provato posso gioire.”
gp

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