sabato 28 settembre 2013

[(s)Concerto poetico n. 57]

Gli scacchi sono un gioco un po’ bislacco
(e ve lo dice uno cui gli piacciono un sacco).
Intanto è l’unico (mi sembra) gioco da tavolo al plurale, potete verificare.
Le carte non contano, sono un mezzo, ma i giochi, loro, sono al singolare.
Nel gioco, il pedone è un pezzo timido, che fa un passetto per volta;
all’inizio però, se ha coraggio, due passi fa, e mai indietro svolta.
Ma è comunque molto importante, perché se dall’altra parte arriverà,
una promozione tosto si guadagnerà.
Il cavallo (ma ha un cavaliere o no?) fa una mossa per niente banale;
l’alfiere (o vescovo, in inglese “bishop”) va solo in diagonale.
Ma con la celata, non dovrebbe solo veder bene in avanti?
La torre mi perplime. Alta, di pietra e mattoni pesanti,
non dovrebbe star ferma immobilizzata?
Invece corre su e giù come una disperata...
La regina, tra i pezzi è il più potente:
di andare in che direzione vuole, non glielo si può impedire per niente.
I re, poverini, che in certi regni guidano gli eserciti,
qui fanno una figura meschina e si muovono come affetti da artriti.
Dietro la torre il re può anche nascondersi,
se arrocca per difendersi.
Perché se lui non può più esser protetto né scappare,
che sia scacco matto, proprio mi pare.
Nati in oriente, e nel tempo da noi importati,
un passatempo affascinante son diventati.
Solo alcuni al mondo sono campioni mondiali,
ma hanno delle menti veramente speciali.
Io mi accontento, nel mio piccolo di giocare,
un poco ogni tanto, ma senza strafare.
Anzi, sapete che vi dico?
Che a parlarne, mi è venuta voglia di giocarci. Magari con un amico.
gp

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